XXXI Giornata del Malato

Messaggio del nostro Vescovo Carlo

TUTTI GLI APPUNTAMENTI IN DIOCESI

Sii per me difesa, o Dio, rocca e fortezza che mi salva,
perché tu sei mio baluardo e mio rifugio;
guidami per amore del tuo nome.

L’Antifona d’ingresso di questo giorno si fa preghiera accorata a Dio, un’invocazione di chi sperimenta fragilità, debolezza, disorientamento perché in balia di una qualche infermità: un limite che lo condiziona e lo fa meno libero, meno lucido e dunque meno padrone di sé.
È un’esperienza che ci costringe a una novità che novità non è.
E come potrebbe essere? La novità è attesa di qualcosa che sta per succedere, qualcosa che ci crea attesa e curiosità fino a entusiasmarci e progettare.
Qui la parola novità quasi si snatura e perde entusiasmo, vitalità, luce e si fa grigiore, preoccupazione, angoscia che ci disorienta costringendoci a domandarci chi siamo, dove andiamo, mentre sperimentiamo il trovarci su strade sconosciute, lastricate di sentimenti e sensazioni inedite: paura, angoscia e sgomento, che ci spingono a guardarci intorno per cercare e porgere la mano a qualcuno.
Il Salmo 31, da cui l’antifona d’ingresso ripete invocazioni e suppliche, è un susseguirsi di diversi stati d’animo, un altalenarsi tra la fiducia in Dio e la considerazione dell’attuale situazione di dolore, dal chiedere di essere liberati dai molti nemici e da una lacerante e profonda angoscia interiore.
È il momento in cui usciamo dalla nostra autosufficienza costretti, come non mai, ad aprirci all’Altro e agli altri.
Inizia una nuova lettura della nostra vicenda terrena, della nostra avventura umana e cristiana.
Cambia la prospettiva, cambia il metro e la misura nel giudicarsi e nel giudicare. Il nostro ricalcitrare si fa sempre più debole e in questi frangenti, in questa via il sentire e il conoscere Dio non rischia equivoci, errori.
È la via dolorosa, la via crucis, ma anche la via lucis che placa le acque tumultuose del nostro egoismo, del nostro essere unici ed irripetibili. Il nostro essere intriganti, uomini dall’agire arrogante si scontra ora con lo sgomento a causa dell’esperienza dell’infermità.
Ed è proprio «al prezzo dell’assunzione di questa complessità, di questa estrema varietà della vita che il salmista può infine rivolgersi a quanti desiderano ascoltarlo: “Siate forti e si rinsaldi il vostro cuore, voi tutti che sperate nel Signore”. Il resto sono chimere, sogni, magari proiezioni religiose» (L. MONTI, I Salmi: preghiera e vita, Qiqajon 2018, p. 379).
L’ora del dolore, un’ora oscura davanti alla quale è bene tacere, per non essere per l’ennesima volta gli ipocriti consolatori di Giobbe (Job’s comforters). È un’ora in cui si entra nell’esperienza viva della vita, non più teoria, ma vita pratica. Ogni dolore, ogni sofferenza, l’esperienza di ogni limite e fragilità prima o dopo ci portano alla conoscenza vera e a ripetere come Giobbe: «Io ti conoscevo per sentito dire» (Giobbe 42,5).
Carissimi fratelli e sorelle, san Giovanni Paolo II, un uomo che abbiamo visto quasi come un’icona della sofferenza, scriveva: «Sappiamo bene che all’interno di ogni singola sofferenza provata dall’uomo e, parimenti, alla base dell’intero mondo delle sofferenze appare inevitabilmente l’interrogativo: perché? 
[…] Per poter percepire la vera risposta al “perché” della sofferenza, dobbiamo volgere il nostro sguardo verso la rivelazione dell’amore divino, fonte ultima del senso di tutto ciò che esiste. L’amore è anche la fonte più ricca del senso della sofferenza, che rimane sempre un mistero: siamo consapevoli dell’insufficienza ed inadeguatezza delle nostre spiegazioni. Cristo ci fa entrare nel mistero e ci fa scoprire il “perché” della sofferenza, in quanto siamo capaci di comprendere la sublimità dell’amore divino» (Salvifici doloris, nn. 9;13).
La sofferenza, ogni sofferenza, non è forse un martirio? Un’esperienza che non possiamo che vivere in intima unione con Cristo.
È il tempo in cui dobbiamo cercarlo senza posa, senza stancarsi per trovare in Lui il senso, il valore e la forza e così rendere fruttuoso e non disperato quel momento.
«Papa Giovanni affermava che la vita di ogni cristiano — e non solo del malato — si svolge sotto il segno della Croce di Cristo. “La Pasqua rappresenta la vittoria assoluta del Cristo. Anche in questo trionfo tutti saremo partecipi. Ad una condizione, però: quella di saper accettare, con generoso cuore, l’aspra via che ad esso conduce: il sacrificio. Tutti, nessuno eccettuato, devono, infatti, percorrere tale cammino. Senza la Croce non c’è vittoria, non si sale alla gloria, non vi sono meriti”. Per il Pontefice la vita cristiana quotidiana è una specie di martirio, analogo alla effusione del sangue proprio di Cristo e dei martiri. […] La malattia non è la «croce» per antonomasia, ma — come diceva già Pio XII — il cristiano può trovarvi la sua croce» (S. SPINSANTI, L’etica cristiana della malattia, Roma 1971, pp. 60-61).
Vorrei riascoltare con voi quanto, in occasione dell’anniversario del martirio di un gruppo di berberi dell’Africa del nord, ebbe a dire il santo vescovo di Ippona Agostino: «Parole stupende, fratelli! Come viene ridimensionata la nostra sofferenza e incoraggiata la nostra speranza! Dice: Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, […] Dice dunque ai fedeli: In misura incredibile egli opera in noi un cumulo pesante ed eterno di gloria. Dice ai fedeli che la tribolazione è leggera e temporanea. In misura incredibile. Ti si comanda di credere a ciò che è incredibile. Soldato fedele, credi all’incredibile, perché a Dio nulla è impossibile. E se parla di cumulo pesante, lo fa per donarti pesantezza e così abbia fine la tua vanità. Dice infatti [il salmo]: Ti loderò in mezzo a un popolo grave. Se parla di peso, è perché la gravità dell’amore ti renda stabile e non ti rapisca il vento della tentazione. Volgi lo sguardo all’aia, e ti piaccia essere grano grave; temi d’essere leggero. Ecco lì la paglia ed ecco lì il grano: l’uno e l’altra vengono agitati nel ventilabro, ma non tutti e due vengono portati via dal vento. L’uno rimane perché è grave, l’altra se ne vola perché è leggera» (AGOSTINO, Nella nascita al cielo dei santi martiri Massulitani, Discorso 283, n. 5).
La sofferenza che è nel mondo e nell’uomo ci invita, per quanto possiamo e il Signore ci indica, a farci prossimi di quanti accanto a noi soffrono. E prima ancora siamo invitati a non essere motivo di sofferenza per tanti «innocenti» piccoli e grandi i quali, ignari di essere evocatori di volti o esperienze che ci hanno ferito, divengono per questo solo e casuale motivo, capri espiatori, bersagli della nostra aggressività a causa di ferite che spesso non abbiamo voluto curare. Dobbiamo curare in noi queste ferite, più o meno recenti, o forse addirittura antiche che tutti ci accomuna in una sorta di infermità collettiva. Ferite che se non curate infettano gli altri, sono motivo di inciampo e di divisone nelle famiglie e in ogni altra comunità.
Il Cristo crocifisso e risorto ha effuso l’abbondanza della sua grazia come guarigione per ogni ferita, malattia e infermità. Facciamoci discepoli di Lui, andiamo alla scuola della Sua sapienza: «Parliamo […] della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria» (1Cor 2,7-8).
È la sapienza della croce, quella stessa sapienza che ci fa conoscere chi siamo e ci ammonisce e ci esorta ad essere veri, misericordiosi e fidati nel nostro relazionarsi con l’altro spingendoci altrove, non fermandoci a quelle norme minime e non sempre giuste che regolano il consorzio umano, ma piuttosto ascoltando e meditando la parola di Colui che è venuto a dare compimento alla legge come si legge nel brano del Vangelo odierno (cfr. Mt 5, 17-37).
«Gesù lo spiega mediante una serie di antitesi tra i comandamenti antichi e il suo modo di riproporli. Ogni volta inizia: “Avete inteso che fu detto agli antichi…”, e poi afferma: “Ma io vi dico…”. Ad esempio: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio” (Mt 5,21-22). E così per sei volte. […] Perciò ogni precetto diventa vero come esigenza d’amore, e tutti si ricongiungono in un unico comandamento: ama Dio con tutto il cuore e ama il prossimo come te stesso. “Pienezza della Legge è la carità”, scrive san Paolo” (Rm 13,10)» (BENEDETTO XVI, Angelus, 13.II.2011).
Insieme all’opera degli uomini, di tante e tanti samaritani, medici, infermieri, volontari e familiari, quale potente medicina è l’amore. Quell’amore che accoglie ogni infermità, ogni debolezza, ogni demenza e sana e consola con la forza di Dio.
Ha scritto papa Francesco: «“Abbi cura di lui” (Lc 10,35) è la raccomandazione del Samaritano all’albergatore. Gesù la rilancia anche ad ognuno di noi, e alla fine ci esorta: “Va’ e anche tu fa’ così”. Come ho sottolineato in Fratelli tutti, “la parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune” (n. 67). Infatti, “siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile” (n. 68)» (FRANCESCO, Messaggio per XXXI la giornata mondiale del malato, 11.II.2023).

+ Carlo