Cattedrale di San Cerbone

La Cattedrale di Massa M.ma è dedicata a S. Cerbone, Vescovo di Populonia dal 570 al 573, Patrono della città.

La sua edificazione risale ai primi anni dell’XI secolo, ma ha subito nel tempo una serie di radicali ristrutturazioni ed ampliamenti.
Sono evidenti ad una prima osservazione, due stili: Il Romanico, lo stile in cui fu edificata la prima costruzione, ed il Gotico, lo stile in cui, nel 1287, per opera di Giovanni Pisano, la Cattedrale fu ampliata ed arricchita sulla facciata del terzo ordine di colonne ornate superiormente da tre guglie. Tutta la struttura è decorata da una serie di archi ciechi e da figure simboliche di animali dal significato apotropaico. Sulla facciata, riccamente decorata, si apre la porta principale dal pregevole architrave, su cui sono scolpite in bassorilievo alcune scene della vita di S. Cerbone. Lo svelto campanile, edificato in stile romanico, un tempo merlato, successivamente orlato da una cuspide a quattro guglie, completa l’opera, mettendola in evidenza.

Festa di san Cerbone – 10 ottobre 2023


L’interno della Cattedrale, maestosamente strutturato in forma di Basilica latina, è diviso in tre navate da due file di colonne dagli insoliti capitelli, diversi l’uno dall’altro.
Presso la porta d’ingresso, situata nella navata destra risalta, murato in una nicchia, un sarcofago romano dell’età dei Severi (III sec. d.C.) sormontato da un affresco della fine del XIII secolo raffigurante la Madonna col Bambino e ai lati S. Francesco e Santa Caterina di Alessandria. In fondo alla navata, sul muro interno di facciata, si trova un gruppo di splendidi bassorilievi preromanici, pregevole opera dai forti influssi bizantini. Poco distante, nella navata centrale, presso la porta principale, appaiono sulla destra, tracce di affreschi con scene della Crocifissione e, a sinistra, un frammento di affresco raffigurante S. Giuliano ospedaliere. La lunetta sopra la porta è chiusa da una tela in cui sono dipinti S. Ciriaco, S. Andrea e S. Bernardino Albizeschi, detto da Siena, Patroni secondari di Massa e dei singoli Terzieri. Sopra a questa una statua lignea ritrae S. Cerbone. L’occhio della facciata è impreziosito da uno splendido vetro istoriato, opera di Gerolamo da Pietrasanta, adorno di figure evocanti la leggendaria vita di S. Cerbone.

Madonna delle Grazie, Duccio di Buoninsegna
Madonna delle Grazie, Duccio di Buoninsegna

Nella navata sinistra, in un angolo, si trova il Fonte Battesimale (1267), opera di Giroldo da Como. E’ costituito da una vasca monolitica, magistralmente lavorata in bassorilievo, su cui sono scolpite scene dell’Antico e Nuovo Testamento. Nel 1447 vi fu aggiunto il rinascimentale tabernacolo marmoreo.
La Cappella sinistra di crociata presenta un affresco raffigurante S. Lucia, la Divina Pastora e S. Agata, protettrici dei minatori, dei lavoratori della lana e dei fonditori. Lungo la parete sinistra della Cappella è posta la tomba del Vescovo Borachia (m. 1924). La Cappella minore della navata sinistra è dedicata a S. Giuseppe.
Presso la Cappella si apre la porta della sacrestia su cui si affacciano la cantoria e l’organo. Si erge nella navata centrale l’Altare Maggiore, opera di Flaminio del Turco, eretto nel 1626 in marmo giallo di Siena, su cui fu posto l’antico Crocifisso in legno policromo, insigne opera di intaglio di Giovanni Pisano. Dietro l’Altare Maggiore si apre il Coro, maestosa opera gotica dagli ampi finestroni. Vi si trovano gli stalli canonicali (XV sec.) e nel centro dell’abside, l’Arca di S. Cerbone (vedi sotto), contenente le sue spoglie, sublime opera di Goro di Gregorio (1324). Su una parete si osserva l’affresco raffigurante il Vescovo Antonio da Massa in ginocchio ai piedi di S. Cerbone.

 Nella Cappella minore della navata destra si conserva una preziosissima tavola su cui è mirabilmente dipinta la Madonna delle Grazie, opera di Duccio di Buoninsegna (m. 1318) e, dietro questa, si vedono scene della Passione su frammenti di tavola. Nella Cappella destra di crociata si custodiva il Santissimo Sacramento che attualmente è posto nell’Altare Maggiore. Vi si osservano, nella parete di fronte, i resti di un affresco in cui figura una Maestà; mentre nella parete si ammira una croce lignea centinata, opera di Segna di Bonaventura. Lungo la navata destra si trova la tomba del Vescovo Traversi (m. 1872) e, presso la porta di ingresso, un frammento di affresco raffigurante l’Adorazione dei Magi. Decora la lunetta, situata superiormente alla porta, un dipinto che ritrae la Madonna con S. Bartolomeo e S. Caterina Di Alessandria.
Note:- Lungo le pareti sono esposte “tele” di Rutilio Manetti (1571-1639), di Raffaello Vanni (1587-1673) e di scuola senese (inizio sec. XVIII).
– Nella parete della Cappella minore della navata di destra sono esposti i “resti”, di una tavola di Sano di Pietro (1406-1481) trafugata nel 1922, recuperati e restituiti:
– Nella Cappella sinistra di crociata sono esposti “Antifonari” dei vari tempi liturgici: “Miniature – Tempera su pergamena” (scuola senese, fine sec. XIII inizio XIV).
– Al centro del Presbiterio un “tronco di colonna marmorea” trecentesca, finemente lavorata, sorregge la “mensa d’altare” in cristallo.

L’Arca di San Cerbone

Arca di San Cerbone

L’arca di san Cerbone, oggi collocata dietro l’altare maggiore su due sostegni, sì che la si possa osservare ad una giusta altezza e vi si possa girare attorno, si presenta relativamente ben conservata e integra nelle sue parti. Si compone di una cassa rettangolare lungo la quale si dispongono otto riquadri con storie del Santo, e del coperchio, sui cui spioventi sono dodici medaglioni con Santi e Profeti, la Madonna col Bambino e la salma del Santo vegliata da due angeli I bassorilievi della cassa sono spartiti da un elegante motivo decorativo a girali di foglie d’acanto e sono sormontati da succinti titoli in latino che illustrano il contenuto delle scene.

Su uno dei lati lunghi, in basso, è incisa la scritta:

“ANNO DOMINI MCCCXXIIII IDIT VII MAGISTER PERUCIUS OPERARIUS ECCLESIAE FECIT FIERI HOC OPUS MAGISTRO GORO GREGORII DE SENIS”.

Le storie della vita del Santo, lungo i fianchi dell’arca di san Cerbone, cominciano con la scena nella quale egli, condannato da Totila ad essere sbranato dagli orsi è da questi miracolosamente lambito. Secondo la leggenda Cerbone 17 nato in Africa alla fine del V secolo, fu discepolo di san Regolo e venne in Maremma, dove si dette a vita eremitica già ordinato vescovo in patria per sfuggire alle persecuzioni dei Vandali. L’episodio che dà inizio alla narrazione scolpita da Goro si riferisce a quando Cerbone, per aver ospitato dei soldati avversi a Totila, fu da questi gettato agli orsi. Questa prima formella dimostra già in pieno le straordinarie qualità decorative e compositive di Goro; su un fondale a girali di foglie si stagliano le architetture: una torre a destra, da dove un servo ha fatto uscire gli animali e, dalla parte opposta, una scalinata elegantemente lavorata che conduce al terrazzo dal quale Totila, con alcuni del suo seguito, osserva la scena. Fra le due strutture architettoniche si pone, eretta, la figura del Santo che rivolge lo sguardo a terra, verso uno dei due orsi che gli lambiscono i piedi come fossero docili cagnolini. La formella presenta diverse tracce della policromia originale.

Il secondo bassorilievo comincia il racconto di quella che è la vicenda principale della leggenda di san Cerbone e che avrà risoluzione solo nell’ultima delle otto formelle scolpite. I cittadini di Populonia supplicano Cerbone, nel frattempo diventato vescovo di quella diocesi di ritardare l’orario della Messa che egli usava celebrare nelle ore antelucane. La scena presenta lo stesso fondo di quella precedente, sul quale quasi galleggiano i cittadini di Populonia disposti su due file al cospetto del vescovo che, assiso sulla cattedra sotto un baldacchino, benedice la delegazione. Visto l’insuccesso della spedizione i cittadini di Populonia si rivolgono, nel terzo riquadro, direttamente a Papa Virgilio perché richiami a più miti consigli il loro vescovo. All’estrema sinistra uno scorcio di Roma con una porta d’ingresso della città e una cattedrale con campanile; il resto della superficie è occupato dai tre inviati maremmani inginocchiati – e ritmicamente disposti di fronte al trono papale attorniato dalla corte. La figure sono inquadrate sotto una loggia ad archetti le cui pareti coronate da merli a coda di rondine, sono decorate con un motivo che ritorna anche sul sedile del Papa. La narrazione prosegue poi nella formella isolata sul lato corto dell’arca, ancora con un’ambasceria; si tratta questa volta dei legati apostolici che recano a Cerbone l’ordine di comparire dinanzi al Papa. Sotto una triplice arcata, a sua volta divisa in arcatelle trilobate, i due messi di Virgilio notificano la citazione al Vescovo seduto sulla cattedra mentre due cittadini curiosi osservano, quasi furtivamente quello che sta accadendo. Questa coppia di curiosi è uno degli esempi più evidenti della capacità di Goro di cogliere gli aspetti più semplici e spontanei del racconto, servendosi di elementi pittoreschi e, se si vuole, del tutto accessori ma delegando loro una funzione molto importante nell’economia della figurazione Enzo Carli ha parlato per questo stile narrativo – figurativo tipico dell’arte senese del Trecento, di “stile di predella’ e Goro di Gregorio nei rilievi dell’Arca se ne dimostra un interprete squisito e raffinatissimo.

Il racconto continua sull’altro lato lungo dell’arca dove le scene, che narrano del viaggio di Cerbone a Roma sono ancora più consone allo stile e alle inclinazioni di Goro. Il primo episodio illustra come il Santo, mungendo una cerva che gli si era docilmente avvicinata, riesca a placare la sete terribile che aveva colto i messi papali. E’ la prima ambientazione in esterno che compare nel ciclo e Goro la risolve costruendo una montagna di rocce spigolose e frastagliate con alberi le cui ricche chiome sono modellate con l’ausilio del trapano Cerbone compare due volte quando munge la cerva e quando porge ai messi d latte ristoratore; la composizione è di nuovo tutta organizzata per cellule ritmiche, come se si trattasse di un brano di musica; si vedano ad esempio i messi, seduti d’accosto gli uni agli altri e atteggiati in pose molto simili, o il gioco delle teste dei cavalli all’estrema sinistra del rilievo L’episodio successivo illustra un altro miracolo compiuto durante il cammino, la guarigione di tre viandanti colti da altissime febbri Goro questa volta esaurisce lo spazio a disposizione e non lascia campiture di marmo libere a fare da fondale: a destra prolunga la montagna – popolata da grandi, ma apparentemente inoffensivi uccelli – fino all’estremità superiore, a sinistra riempie invece lo spazio con cavalli e cavalieri del seguito di Cerbone. La scansione delle figure nello spazio è regolata sul medesimo principio elegantemente ritmico, qui amplificato dalla saturazione della superficie.

Molto bello – e giustamente celebrato – il particolare del cane che procede con passo lento e faticoso, così come quello del palafreniere che tiene il cavallo rimasto senza guida dopo che il Santo ne è sceso per farsi incontro ai tre ammalati. L’ultima scena del fianco illustra due episodi contemporaneamente, l’arrivo di Cerbone a Roma e il momento in cui si presenta al cospetto del Papa. La porta d’ingresso alla città taglia la composizione in due parti separando gli ambienti: alla sinistra il corteo a cavallo sta approssimandosi a Roma, a destra, in una sala, il Papa si alza in piedi alla presenza di Cerbone riconoscendolo subito come santo. Il seguito di Cerbone, che si staglia su un fondo blu in parte ancora conservato, è disposto singolarmente in maniera da comporre una specie di illusoria “fila indiana” serpentinata dietro al Santo e al suo più immediato compagno, col risultato di un vivace dinamismo espresso in particolare dai cavalli che sono visti di fianco, frontalmente, e perfino da dietro. Il primo a varcare la porta è però un branco di oche, osservate da Cerbone in volo e da questi chiamate a sé per farne dono al Pontefice; compaiono infatti anche nell’altra metà della scena fra il Santo, acefalo, inginocchiato e il Papa in piedi che lo benedice.

La cattedrale al tramonto

L’ultimo bassorilievo, sull’altro lato corto dell’arca, svela finalmente il mistero delle messe notturne celebrate da Cerbone che sono all’origine di tutti gli avvenimenti, ad eccezione del primo, illustrati da Goro. Un coro di angeli infatti, alle sue messe, compariva a cantare il Gloria e Cerbone, per umiltà, aveva sempre voluto celare il fatto. Goro elabora per questa ultima scena una soluzione di estrema raffinatezza evitando di rappresentare gli angeli, ma evocandone la presenza attraverso lo stupore e la meraviglia dei quattro chierici che assistono al rito.

Sul coperchio dodici clipei racchiudono figure sedute di santi e profeti, nei due tondi centrali dei lati lunghi, da una parte la salma di Cerbone vegliata dagli angeli e dall’altra la Madonna col bambino E’ praticamente impossibile identificare i profeti tutti abbastanza simili come fisionomia e recanti dei cartigli ormai privi delle scritte, un tempo dipinte sul marmo. Fra i santi si riconoscono con qualche Dubbio, Pietro, Paolo che ha perso l’attributo della spada e un santo vescovo che potrebbe essere con buona probabilità Regolo o forse Agostino.

Assai bella è la veglia funebre dei due angeli, commossi al cospetto delle spoglie del Santo. L’intensità del dolore, pur cosi’ pacatamente espresso dai loro volti, si traduce anche nel gesto spontaneo e solidale della mano delicatamente appoggiata dall’angelo di destra sulla spalla del compagno; giova ricordare con le parole del Carli ‘la suprema eleganza con cui si arricciola il lenzuolo funebre, d cui movimento lentamente va spengendosi accompagnando la curvatura del medaglione, quasi ad includere entro una fragile valva preziosa le composte spoglie del Vescovo ” dall’altro lato del coperchio, specularmente alla veglia del Santo, una Madonna col Bambino preludio di minime dimensioni, eppur compiuto, della coeva statuetta di analogo soggetto resa nota dal Bartalini nel 1990 e della “Madonna degli Storpi” del Museo Regionale di Messina.

Vi compare già lo stesso Bambino riccio dal volto paffuto, la spezzatura del polso della mano destra della Vergine, appoggiata sulla gamba come sarà in quella di Messina, l’elegante gioco delle pieghe dei panni – qui rattenuto dalle dimensioni – e, soprattutto, quella caratteristica articolazione del corpo umano per cui la figura sembra come disporsi in una Dolce curvatura a forma di S. Comune a tutti i profeti e santi assisi all’interno dei tondi, e a molti personaggi delle vicende narrate nelle formelle, questa spiccata inclinazione ad atteggiare le figure non può leggersi altro che come adesione totale ai canoni estetici del gotico francese, precocemente e compiutamente tradotti in marmo da Goro di Gregorio su modelli desunti dall’arte orafa. I1 fondo dei clipei recava una decorazione con motivi a rombi talora ancora debolmente percepibile, mentre piante dalle larghe foglie circondano i tondi non lasciando priva di decori alcuna porzione del coperchio, ai cui angoli e alla cui sommità corrono motivi vegetali di intreccio ancora diverso.

L’arca, a dispetto delle dimensioni e del materiale, si presenta quasi come una grande opera di oreficeria dove cura somma è stata riposta nella raffinatezza esecutiva e nell’eleganza delle ricche decorazioni che incorniciano non solo le sue estremità e i margini degli episodi figurati ma entrano ben dentro le scene con i fondi operati, le ornatissime architetture, la policromia che ancora si avverte22.

L’impiego dell’oro e del colore doveva rivestire un’importanza non certo secondaria nella poetica di Goro di Gregorio: pressoché tutte le sue opere superstiti ne trattengono ancora qualche frammento e il sepolcro dell’Arcivescovo Guidotto d’Abbiate a Messina appariva addirittura al Samperi, sulla metà del Seicento, un “marmoreum tumulum auro Illuminaum”

Le qualità pittoriche di Goro e la sua abilità di cesellatore, unite al gusto per la decorazione, la cura dei particolari e la predilezione per l’andamento ritmico e grafico della composizione hanno fatto sì che più di una volta si siano ricercate tangenze e affinità con l’arte orafa.

Al Venturi risale la fortunatissima intuizione di accostare all’oreficeria i rilievi marmorei dell’arca – “gli ornati finissimi paiono cesellati da un orafo” – suggestione poi rimeditata e maggiormente argomentata dal Carli che indicò come gli ornati dell’arca fossero “eseguiti a bassissimo rilievo, con una tecnica che, se non vuole proprio deliberatamente imitare quella dello ”champlevé”, indubbiamente ad essa si ispira: e tanto più tale somiglianza doveva esser palese, quando non era ancora scomparsa la vivace policromia” Goro di Gregorio offre nell’ultima scenetta dell’arca un virtuosistico esempio di traduzione in marmo di tecniche e di effetti propri dell’oreficeria fingendo, sull’altare dove celebrano messa Cerbone e Papa Vigilio, un vero e proprio smalto traslucido.

Puntuali riscontri tra gli ornati dell’arca e quelli di coeve opere dell’oreficeria e della sfragistica senese sono stati ulteriormente messi in luce di recente dal Bartalini Una vera e propria attività di Goro nel campo dell’oreficeria si è invece cominciata a delineare, con estrema cautela, a partire dalla mostra Il Gotico a Siena, del 1982, in occasione della quale furono considerate in questo senso le due statuine d’argento a fusione coi dolenti della Croce-Reliquiario del legno della Santa Croce del Tesoro della Cattedrale di Padova e quelle del bellissimo Pastorale del Museo Capitolare di Città di Castello Le analogie fra queste microsculture e i rilievi dell’arca massetana sono sorprendenti: assai simile è il panneggio con le sue falcature e le grandi pieghe a spigolo, così come la goticissima, arcuata postura delle figure le fisionomie e gli atteggiamenti;

la Madonna col Bambino del Pastorale umbro poi non può che richiamare con forza la Madonna del clipeo dell’arca tanto da apparire quasi come una derivazione da quest’ultima Insostenibile la proposta del Kreytenberg di anticipare le statuine di Città di Castello al primo decennio del Trecento, non solo perché le placchette smaltate che decorano il prezioso oggetto non potrebbero darsi senza gli affreschi di Simone Martini ad Assisi come ribadito dal Bartalini , ma anche perché le stesse statuine apparirebbero troppo in anticipo sui tempi tanto da risultare completamente isolate e prive di qualsiasi plausibile confronto con la scultura senese coeva.

A queste spiccate qualità plastiche, pittoriche, decorative e compositive si unisce poi in Goro una straordinaria capacità di condurre la narrazione, rifuggendo da ogni drammaticità e dalle caratterizzazioni accentuate dei personaggi per lasciar spazio all’incanto della favola, alla semplicità e alla sincerità dei sentimenti al divertimento del raccontare. E d soggetto, un santo quasi leggendario il cui attributo iconografico è un branco di oche, si accorda in questo caso in maniera perfetta al carattere e al registro stilistico dell’artista L’arca di san Cerbone si inserisce in un ciclo di opere pregiatissime, quasi tutte di ambito senese, che nel giro di pochi anni abbellirono Massa come naturale conseguenza di un periodo felice per le sorti economiche della città. Lo stesso Peruccio, l’operaio dell’Opera di S. Cerbone che commissiona il lavoro a Goro, aveva ricevuto dal Comune l’ordine di anticipare i denari per portare a compimento la “tabula nova beate Marie Virginis” che non è difficile identificare con la bellissima Maestà duccesca ancor oggi nella cattedrale massetana ; poco tempo dopo Ambrogio Lorenzetti “a Massa, lavorando in compagnia d’altri una cappella in fresco et una tavola a tempera, fece conoscere a coloro quanto egli di giudicio e d’ingegno nell’arte della pittura valesse” .

Il primo ricordo che ci resta dell’arca di san Cerbone è quello contenuto nella “memoria” relativa alla ricerca, al ritrovamento e al ricollocamento delle reliquie del santo, il 4 giugno 1600, nell’urna scolpita da Goro ; in questo documento dell’Archivio Comunale di Massa, già noto al Carli , si fa menzione dell’arca come di una “capsulam marmoream diu prius constructam subtus altare madus” confermando quindi che la localizzazione dell’arca sotto la mensa risale a ben prima che Flaminio del Turco costruisse il nuovo altare, allogato nel 1623 e terminato cinque anni più tardi Il collegamento tra il nuovo altare e lo spostamento dell’arca fu senza alcun dubbio enunciato dal Petrocchi nel 1905 mentre l’arca per il Carli ”molto probabilmente fin dall’origine stava sotto la mensa dell’altar maggiore del Duomo dove venne nella parte tergale occlusa dal nuovo altare seicentesco di Flaminio del Turco” Il canonico Arus, infine, nella sua guida alla Cattedrale massetana, riporta la tradizione secondo la quale fino al 153c° l’arca si trovava sopra l’altare . della “memoria” citata esiste alla Biblioteca Comunale di Siena una pressoché contemporanea versione in volgare più ricca di notizie e di osservazioni, come si addice al carattere meno ufficiale che la impronta . L’arca di san Cerbone viene qui per la prima volta sommariamente descritta e l’utilizzo al riguardo dell’aggettivo “nobil” pare suggerire anche un giudizio di valore; vi si legge infatti che Patrizio Sergardi, vescovo di Massa e Populonia, “dette principio a cercare aprendo un nobil pilo di pietra che era collocato sotto l’altare maggiore de la chiesa et nel quale di mezzo rilievo è scolpita la vita di Santo Cerbone, dov’era la più comune opinione che fussino dette reliquie ma si trovò voto” .

Sebbene Massa Marittima fosse, in epoca moderna, una cittadina ormai senza importanza, scarsamente popolata, fatiscente nelle sue architetture e assolutamente al di fuori degli itinerari dei viaggiatori , si riscontrano numerose menzioni dell’arca – sempre con parole di lode – in diverse fonti settecentesche e ottocentesche a partire dal Targioni Tozzetti , il primo a riportare le iscrizioni incise nell’arca anche se -probabilmente all’oscuro della vicenda del Santo narrata nei bassorilievi – senza avvedersi che i due riquadri sui lati corti dell’arca sono stati invertiti e comincia perciò dall’ultimo (“Hic fecit Pape gloriam audire de Celo”), non facendo inoltre alcun cenno ai riquadri nascosti alla vista .

Si accorge invece di questa incongruenza il della Valle: “Tre di questi scudi sono di faccia, e uno da capo e l’altro a piedi. Comincerò da piedi per tener dietro all’ordine dato dallo scultore a queste storie” A}le lusinghiere parole del della Valle – “varrà per cento elogi di questo artista un’urna, capace di un uomo di statura ordinaria, tutta lavorata a basso rilievo per la Cattedrale di Massa in Maremma – faranno seguito quelle del Fontani: «Il lavoro è fatto con diligenza, ed amore; le figure sono condotte con be lla attitudine le mosse sono risolute, ed i gruppi disposti con buona armonia ” e l’apprezzamento del Cicognara nel terzo volume della Storia della Scultura. La descrizione del Romagnoli ricalca fedelmente quella del Della Valle mentre discende dal Petrocchi l’errata intuizione che sul lato nascosto alla vista fossero due sole formelle – quelle estreme che, sporgendosi si potevano in parte vedere – e non tre come è in realtà e come era facile, per analogia col fianco in vista, supporre. Sulla scia del Petrocchi anche il Venturi tace sul terzo invisibile riquadro centrale.

La vera e propria riscoperta dell’arca di san Cerbone e del suo poco conosciuto artefice si deve ad Enzo Carli che pubblicò nel 1946 la prima – e finora unica – monografia sull’artista in quell’occasione l’arca fu rimossa dalla sua infelice collocazione e resa interamente visibile. attorno al 1950 venne trasportata nella cripta e attorniata da undici statuine di santi e profeti, da molto tempo ormai associate all’arca – anche se impropriamente – e la cui vicenda merita forse di essere brevemente riassunta. La serie, che fino al 1921 si trovava sopra gli stalli del coro della Cattedrale, fu creduta di Goro di Gregorio dal Venturi ma già il Planiscig nel 1915 notava come le statuine non fossero affatto pertinenti all’arca e tendeva addirittura a spostarne l’esecuzione alla II metà del secolo Non furono ritenute di Goro di Gregorio neppure dal Carli che propose, con cautela, il nome di Agnolo di Ventura, documentato a Massa Marittima nel 1336; fu Luigi Grassi a coniare la formula “Compagno di Goro di Gregorio”, intendendo individuare così un artista formatosi nella bottega di Tino di Camaino e vicino all’arte di Goro con qualche ricordo di Giovanni Pisano.

Recentemente le stauine sono state riferite da Luciano Bellosi all’estrema attività di Gano di Fazio , attribuzione respinta con forza dal Carli che non vi riconosce la mano di questo maestro e che ritiene, a mio avviso a ragione,. precoce una datazione sulla metà del secondo decennio del secolo.

Bibliografia: L’arca di San Cerbone di Marco Pierini, quaderni del Centro studi n°4