Giornata della Vita consacrata

L'omelia del nostro vescovo Carlo

La santa messa è stata celebrata venerdì 2 febbraio presso la concattedrale di sant’Antimo in Piombino. Di seguito il testo dell’omelia pronunciata dal nostro vescovo Carlo

Carissimi fratelli e sorelle:
«Ecco, il Signore nostro verrà con potenza, e illuminerà gli occhi dei suoi servi».
Un’esortazione, quella che apre la liturgia di questo giorno, che quasi riassume e ci offre il senso e la ragione di questa festa.
Il tempo di avvento che ci ha preparato al Natale, che abbiamo celebrato quaranta giorni or sono, è ora come vissuto nella vita del vecchio Simeone e della profetessa Anna. Anche loro hanno vissuto la propria attesa ed hanno avuto la grazia di riconoscere Colui che, senza saperlo pienamente, attendevano.
L’attesa intreccia la vita dell’uomo. L’uomo stesso nel suo crescere e formarsi, nel suo qualificarsi e definirsi è attesa di un compimento, di una pienezza. Ma sarebbe tragica sorte se l’uomo attendesse se stesso e da se stesso la sua realizzazione, sarebbe una condanna alla solitudine e a giorni di angoscia. Come è vera quella parola antica pronunciata all’inizio della creazione: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Come a dire, per essere più precisi, della necessità di qualcuno che gli stia di fronte.
Attesa allora non di qualcosa, di una qualche ricchezza che diviene l’ultima illusione di essere bastanti a noi stessi, autosufficienti, non aver bisogno di nessuno, ma attesa di qualcuno.
O addirittura di Qualcuno che viene a noi, che ci attende, nonostante sia l’Atteso, come sembra dirci il profeta Malachia: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti» (Ml 3,1).
Non tanto il peccato come azione che commetto, qui ed ora, ma piuttosto la mia situazione di limite, di fragilità, di precarietà mi spinge alla ricerca di Qualcuno che sia per me, che mi soccorra, mi sollevi e mi renda forte. Sant’Agostino scriverà: «Guidami nella tua verità. Fammi fuggire l’errore. E ammaestrami.  Infatti da me ho conosciuto solo la menzogna. Perché tu sei il Dio mio Salvatore, e in te ho sperato tutto il giorno. Perché, scacciato da te dal paradiso ed esiliato in una lontanissima regione, da me non posso tornare, se tu non vieni incontro al mio errare; il mio ritorno infatti ha sperato nella tua misericordia per tutto il tempo della vita terrena» (Esposizione sul salmo 24, 5[v.5]).
Il salmo responsoriale incalza e supplica: «Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi, soglie antiche, ed entri il re della gloria».
Ma anche questo compito è impari alla debolezza dell’uomo, all’impossibilità di dare un senso del suo essere al mondo, a riconoscere Colui che continuamente viene a noi, e così trovare una ragione vera di vita. Dunque a sperimentare la salvezza che rimane dono che scende dall’alto, mentre a noi è richiesta la fatica di attenderlo e di accoglierlo.
Quelle porte che si devono alzare sono le porte del tempio che è in noi, ma non abbiamo la forza di aprirle, sollevarle. Il venire di Cristo verso quanti l’attendono è già apertura, è già esperienza di uno spalancarsi e sentirsi inondati di eternità.

«Eleva, Signore, le porte del tempio che è in noi,
affinché siano porte eterne.
Il Cristo, Re della gloria,
entri attraverso di esse come nel cielo
e plachi le battaglie contro gli spiriti malvagi,
affinché tutta la nostra terra ti appartenga,
insieme a tutti coloro che la abitano» (Orazione salmica di tradizione africana, in Oraisons, p. 68).

Il suo venire è illuminazione, solo quella luce ci dona la luce per riconoscerlo e accoglierlo. Quella stessa luce che ci fa riconoscere gli uomini come fratelli e ci esorta ad accoglierli come donati da Dio come abbiamo appena chiesto a Cristo, Re della gloria: «… tutta la nostra terra ti appartenga, insieme a tutti coloro che la abitano».
Un essere solidali in questo tempo con un’umanità martoriata e di nuovo messa a dura prova. Di nuovo l’uomo è travolto e disprezzato nella sua dignità.
Veramente anche la fede è messa a dura prova, sembra che Dio ci abbia abbandonato. Ma come scriveva un ottimo filosofo e teologo del secolo scorso: «Tuttavia è palese che dobbiamo sperimentare il nostro rapporto con Dio tra i poli della lontananza e della vicinanza. Dalla vicinanza siamo fortificati, dalla lontananza messi alla prova. Quando si fa percepire la vicinanza di Dio è facile essere credenti; ma quand’Egli è lontano, allora viene il tempo per la fede pura, che non ha altro che la parola: “Non t’abbandono!”. […] Egli attende […] che noi gli restiamo fedeli attraverso il tempo della lontananza. Da questo potrebbe sorgere una fede, non meno valida, anzi forse più pura, in ogni caso più intensa di quanto sia mai stata nei tempi della ricchezza interiore» ( R. GUARDINI, Accettare se stessi, Brescia 2011, pp. 71.72).
Oggi la vita consacrata credo abbia come non mai un’esigenza che non può rimandare: «Stare con il Signore», per trovare, come raccomandava san Giovanni Paolo II in occasione della I giornata della vita consacrata (2.I.1997), «il giusto e fecondo equilibrio tra azione e contemplazione, tra preghiera e carità, tra impegno nella storia e tensione escatologica».
Equilibrio che si fa esigente per tutti i battezzati. Ci esortava papa Francesco: «Ci fa tanto bene imparare a stare con lui, stare col Signore, imparare a stare col Signore senza altro scopo, esattamente come ci succede con le persone a cui vogliamo bene: desideriamo conoscerle sempre più, perché è bello stare con loro» (Udienza generale, 16.XI.2022).
Carissimi fratelli e sorelle, l’uomo dei nostri giorni è sempre più ripiegato su se stesso, sempre più isolato. Il nostro stare insieme non è coniugato da un essere per l’altro, e così non si vive quella comunione che implica fedeltà, offerta di sé, fino a sviluppare quelle radici che danno alla nostra vita robustezza e sicurezza anche nelle stagioni avverse del nostro vivere e del nostro morire.  Anzi, spesso, «soprattutto in una cultura del consumo come la nostra, dove, non essendoci nulla di durevole, la libertà non è più la scelta di una linea d’azione che porta all’autorealizzazione, ma è la scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti. Accade allora che questa trama illusoria della libertà di scelta si traduce, come osserva Christopher Lasch ne L’Io minimo, in un'”astensione dalla scelta”, perché dove i rapporti personali seguono lo schema dei prodotti di consumo, la scelta non implica più impegni e conseguenze, perché tutto, dalla scelta di un amico, […] di una moglie, di un marito o di una carriera, di una gravidanza, può essere suscettibile di una cancellazione immediata, non appena si offrono opportunità all’apparenza più vantaggiose» (U. GALIMBERTI, https://www.feltrinellieditore.it/news/2004/09/02/umberto-galimberti-perche-si-sceglie-di-stare-insieme-una-vita-senza-una-vera-ragione-per-farlo–3573).
Se quanto scritto dal Galimberti, a proposito della scelta matrimoniale è pienamente condivisibile, figuriamoci nella altre relazioni. Abbiamo bisogno di stare con il Signore per ricevere da Lui luce, intelligenza e grazia per avere la forza di attenderlo, vivendo nell’attesa quella carità di Cristo che è la carità spesso non compresa, rifiutata e perciò crocifissa, ma che sempre dona, fruttifica e risorge.
<<Oggi celebriamo la festa dell’Incontro: la Vergine Maria ci ottenga la grazia che la nostra vita di persone consacrate sia sempre una festa dell’incontro con Cristo; e così, come lei, potremo portare a tutti la luce del suo amore: la sua luce, non la nostra! Portare Lui, non noi stessi!>> (FRANCESCO, Messaggio, 2.II.2023).
Carissimi fratelli e sorelle, «Riponiamo la nostra fiducia nel Signore
ed egli avrà cura di noi» (S. FRANCESCO, Vita Prima).

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