Santo Natale 2022

Benedetto il bimbo, che oggi
ha fatto esultare Betlemme.
Benedetto l’infante, che oggi
ha ringiovanito l’umanità.
Benedetto il frutto, che ha chinato
se stesso verso la nostra fame.
Benedetto il buono che in un istante
ha arricchito
tutta la nostra povertà
e ha colmato la nostra indigenza.
Benedetto colui che è stato piegato dalla sua misericordia
a prendersi cura della nostra infermità.

( Efrem il Siro, Inno III del Natale)

Un saluto e l’augurio di una vita buona nel Signore.

Una vita in cammino, non sedentaria, ma vivace e vissuta in pienezza. Oggi siamo spinti dalle regole di una buona salute fisica a muoverci, camminare, che è sempre un uscire, un andare altrove. Se essere in cammino è salutare per il corpo è essenziale per tenere sempre vivaci mente ed anima, per domare le nostre emozioni che ci paralizzano e ci rendono schiavi. Uscire, camminare, quasi un esodo dai nostri egoismi e dalle nostre acide solitudini. Dal sostare e rodersi nel progettare ritorsioni e vendette. Ma uscire, andare verso l’altro, cercare di sentire l’altro, mettersi nei suoi panni. Discernere emozioni e sensazioni sapendo che, come ha scritto qualcuno, non tutti i sentimenti devono tramutarsi in azioni, ma piuttosto vivere in quella sobrietà che ci rende capaci di meravigliarci, di stupirci di fronte al bello, al buono e al santo. Ci rende attenti, accorti e saggi nel vivere di quella saggezza che, come diceva Socrate, inizia nella meraviglia.

E non è forse la meraviglia delle meraviglie il Natale del Signore Gesù?

Un vivere, dunque, questa meraviglia che ci restituisce a noi stessi, ci permette di stare con noi stessi perché liberi dal pensare soltanto cosa facciamo o cosa dobbiamo fare, condizionati dai molti impegni, e ci rende capaci di incontrare noi stessi, di rendere ragione a noi stessi del nostro essere e del nostro operare.

Senza progetti, senza stimoli, senza appetiti di sorta l’uomo, giorno dopo giorno, si fa sempre più sedentario e nell’illusione di avere trovato il posto giusto, la dimensione corretta, si arrende e si accontenta di una quotidianità vieta ed anemica.

La vita nomade cercava luoghi e climi favorevoli. Le prime conoscenze divennero capacità di organizzarsi e giungere a quel seminomadismo e poi a un definitivo stanziamento. Ma questo non vale per la nostra crescita umana e cristiana. Mai possiamo pensare e credere di aver raggiunto una definitività, sarebbe pura illusione, l’uomo non può non muoversi, uscire da se stesso, andare altrove se vuole vivere e realizzarsi. L’uomo in questo rimane un nomade, un essere in cammino.

La nascita di Gesù a Betlemme vede un muoversi, invita a partire.

Ieri i pastori, i Magi e quanti altri partirono; oggi uomini e donne, più o meno anonimi, sull’esempio di loro escono dal loro quotidiano e si incamminano. Altri, come Erode, si difendono, rifiutano ogni partenza e minacciano addirittura di morte ogni portatore di novità che li scuote e li sveglia da quel sonno che sempre ha minacciato l’uomo di distruzione, di perdere la sua identità in una smemoratezza che lo aliena e lo rende schiavo. «La Chiesa ha una responsabilità[…] deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un’ecologia dell’uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana[…]. È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell’ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l’ambiente e danneggia la società» (Caritas in veritate, n. 51).

Anche per noi risuona l’invito a svegliarci, a metterci in cammino per entrare in questo grande mistero del Dio fatto uomo che continua a svelare pienamente in Cristo, che è il nuovo Adamo, l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione. (Cfr Gaudium et spes, n. 22)

Si legge nel Vangelo di Luca che appena gli angeli si furono allontanati, i pastori dicevano l’un l’altro: orsù, passiamo di là, a Betlemme e vediamo questa parola che è accaduta per noi (cfr 2,15). I pastori si affrettavano nel loro cammino verso Betlemme (cfr 2,16). L’annuncio dell’angelo aveva toccato il loro cuore.

Non c’è paura in loro, ma gioia. Umanamente parlando potevano essere tentati da sentimenti di timore: «Ma dove ci invita ad andare? Ma dove ci porta? E perché?».

No, c’è gioia. Quell’annunzio li muove, li fa partire.

Tutto il Vangelo è annunzio, è invito a partire. Un invito vero, serio, impegnativo, non a misura di uomo, ma a misura di Dio e perciò dono da accogliere confidando nella sua grazia. Invito non camuffato, non artefatto secondo i gusti degli uomini che nella loro sedicente creatività o, se credete, a motivo delle loro «profezie» isteriche – che hanno caricato gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi però non li hanno toccati nemmeno con un dito! (Cfr Lc 11,46) – lo rendono stucchevole, ipocrita, non credibile, sale che perde il suo sapore.

Per partire nella gioia occorre partire per amore, amore che ci rende fruttuosi e che realizza l’uomo in pienezza. Ma come è difficile partire?

«Gesù sa bene», ci dice papa Francesco, «che Pietro e gli altri hanno ancora molta strada da fare per diventare suoi apostoli!».

E noi no?

E Gesù si rivolge a loro e a noi con chiarezza: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25). Continua il Santo Padre: «In questo paradosso è contenuta la regola d’oro che Dio ha inscritto nella natura umana creata in Cristo: la regola che solo l’amore dà senso e felicità alla vita. Spendere i propri talenti, le proprie energie e il proprio tempo solo per salvare, custodire e realizzare se stessi conduce in realtà a perdersi, ossia a un’esistenza triste e sterile. Invece viviamo per il Signore e impostiamo la nostra vita sull’amore, come ha fatto Gesù: potremo assaporare la gioia autentica, e la nostra vita non sarà sterile, sarà feconda» (FRANCESCO, Angelus, 3.IX.2017).

Quel perdersi che non è altro che un seminare noi stessi per un raccolto, ben lontani dal custodirci in un granaio di questa terra che non vedrà un moltiplicarsi, un tempo di messi rigogliose e perciò la gioia della festa del raccolto. Ma ci renderà custodi del nulla, capaci solo di riporre in quel nulla le nostre speranze e attese fino alla grande delusione che prima o dopo verrà, perché abbiamo confuso i granai della terra con quelli del cielo, lì solo vivremo la definitività, lì canteremo l’alleluia che non ha fine.

«O felice quell’alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell`ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo, quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina» (S. AGOSTINO, Discorso 256).

Ritroviamo la nostra vocazione ad essere viandanti, pellegrini e ospiti su questa terra, per ritrovare in quel Bambino la vera meta, la vera casa e il vero riposo.

«Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità» (T. BELLO, in http://www.ognissantisanbarnaba.it › 51-in-primo-piano).

Una clandestinità che è retaggio di tutti noi: fragili, deboli, miseri viandanti sempre più smarriti, che specialmente nelle ore più oscure e buie cercano quella luce. Da secoli i giorni più bui dell’anno, quelli che precedono il solstizio d’inverno, con il canto delle antifone maggiori del Santo Natale invocheranno, supplicheranno il Signore, Lui luce che non tramonta, di venire a visitare chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte. Il giorno esatto del solstizio, il 21 dicembre, il Signore sarà invocato come Oriente, splendore di luce eterna e sole di giustizia. Sappiamo bene che quanto più l’uomo prenderà coscienza della sua debolezza, delle tenebre che lo circondano, tanto più invocherà con fiduciosa insistenza quella luce e da quella luce si lascerà guidare, illuminare e riscaldare. Quanto più si illuderà della sua autosufficienza, dell’ essere unico artefice del suo destino, discepolo di se stesso, tanto più volgerà le spalle a quella luce entrando nel buio, nel freddo e nello smarrimento più grande. Ma anche allora il Signore verrà a dirci della sua venuta, a mettere nel cuore degli uomini la nostalgia di Lui.

Veramente «l’aspetto più sublime della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio. Se l’uomo esiste, infatti, è perché Dio lo ha creato per amore, e per amore, non cessa di dargli l’esistenza; e l’uomo non vive pienamente secondo verità se non riconosce liberamente quell’amore e se non si abbandona al suo Creatore» (Gaudium et spes, n.  19).

Carissimi fratelli e sorelle, Gesù ci ha detto della sua passione per l’uomo fin dai primi attimi della sua vita. Con il nascere in quella povertà e fragilità si è fatto prossimo a tutti. L’oriente in modo particolare ha raffigurato la culla di Gesù Bambino a forma di croce, ma anche l’occidente, non di rado, lo colloca in un sarcofago. Anche il Natale, dunque, è raggiunto e trova pieno significato alla luce della Pasqua di morte e risurrezioni del Signore. Sia il nostro impegno, in questa vigilia del Natale del Signore, un tempo di più insistente preghiera per noi, per ogni uomo e per il mondo intero: «O Dio, che ci hai dato il pegno della vita eterna, ascolta la nostra preghiera: quanto più si avvicina il gran giorno della nostra salvezza, tanto più cresca il nostro fervore, per celebrare degnamente il Natale del tuo Figlio» (Orazione dopo la comunione, IV di Avvento, anno A).

In attesa del suo ultimo avvento celebriamo nella speranza vera questo Natale.

A tutti voi il mio augurio di pace, salute e prosperità.

+ Carlo, vescovo

Massa Marittima, 18 dicembre 2022

IV domenica di Avvento

23 Dicembre 2022

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